Teatro San Carlo di Napoli – Jeffrey Tate: Fauré Messe de Requiem - N. Demidenko pianoforte
Orchestra e Coro
 del Teatro di San Carlo
 
 Jeffrey Tate direttore
 Nikolai Demidenko pianoforte
 
 Gabriel Fauré
 [1845-1924]
 Messe de Requiem
 Per soprano, baritono, coro, organo e  orchestra, op. 48
 Anno di composizione: 1877 (revisione  1887-1890, orchestrazione 1900)
 Introït - Kyrie
 Offertoire
 Sanctus
 Pie Jesu
 Agnus Dei
 Libera me
 In Paradisum
 Definito talvolta, e impropriamente, il “Brahms francese”,  Gabriel Fauré
 condivideva con il suo più anziano collega tedesco la  medesima
 proiezione verso una sfera sociale elitaria; la sua  personalità fu invero lontanissima dall’enfasi provocatoria richiesta spesso  come dote quasi essenziale per un artista in cerca di affermazione pubblica.  Anche se
 l’ambito della musica da camera fu quello prediletto da  Fauré, non bisogna dimenticare che egli fu
 organista e maestro di cappella per circa quarant’anni,  buona parte dei quali passati fra le pareti della chiesa
 della Madeleine di Parigi alle prese con il compito di  accompagnare le funzioni religiose e scrivere di tanto
 in tanto composizioni sacre. Ad assolvere tali mansioni  l’aveva condotto la sua stessa formazione
 scolastica, avvenuta non in Conservatorio, bensì nella  Scuola Niedermeyer; quest’ultima aveva
 infatti come suo principale obiettivo  quello di formare maestri di cappella che fossero
 portatori di una riforma della musica religiosa all’insegna  del restauro del canto gregoriano e del ritorno ai modelli palestriniani. Da  questi dati di fatto non si può prescindere per valutare il Requiem op. 48. La partitura che oggi conosciamo è il risultato di una serie  di stratificazioni successive, non ancora del tutto chiare: la prima versione,  presentata alla Madeleine nel 1888, prevedeva un’orchestrazione quasi
 cameristica (archi, arpa, organo e timpani) e non includeva  ancora l’Offertorio e il Libera me; questi due
 brani vennero aggiunti per esecuzioni successive, in  occasione delle quali Fauré ritoccò in più punti
 la tavolozza orchestrale. Alcuni anni più tardi, in  prossimità di un concerto all’Esposizione Universale
 di Parigi del 1900, Fauré venne indotto dal suo editore  Hamelle a riorchestrare la partitura per
 adattarla all’organico sinfonico convenzionale, includendo  le consuete coppie di legni, e aumentando la presenza di corni, trombe,  tromboni. Quest’ultima versione contribuì moltissimo alla successiva diffusione
 del Requiem nelle sale da concerto, pur al prezzo di sbiadire in parte  la fisionomia originale di un capolavoro che alla grandiloquenza di Berlioz,  alla potenza drammatica di Verdi, alla cupa monumentalità di Brahms, oppone una  musica pallidamente luminosa, arabeschi melodici di arcaizzante semplicità, una  limpida e commovente serenità di accenti. Fauré stesso chiarì così il suo punto  di vista: «Si è detto che il mio Requiem non esprime l’orrore della morte. Qualcuno l’ha definito una berceuse della morte. Ma è così
 che io sento la morte: come una lieta  liberazione, un’aspirazione alla felicità dell’aldilà piuttosto che
 come  un passaggio doloroso». Quest’intenzione appare pienamente  confermata dai tagli operati sul testo rituale; con le omissioni del Dies  irae, del Rex  tremendae, del Lacrymosa la minaccia terrificante del giudizio  finale scompare quasi del tutto, lasciando tracce soltanto nel Libera  me (scritto nel 1877
 come brano autonomo e poi recuperato), che si distingue dalle  altre parti per la sua intensità chiaroscurale e per la sua scrittura vocale ad  ampie volute. Il resto della partitura sembra invece guardare alla polifonia  rinascimentale (soprattutto a Josquin Desprez) e al canto gregoriano: lo  spirito del cantus planus si ritrova nella costante tendenza a muovere le linee  melodiche per curve di limitatissima ampiezza e nell’elusione di
 qualsiasi forma di “sviluppo” nel senso classico del  termine. Esemplare in tal senso è il PieJesu, che occupa la posizione centrale e che può essere  considerato il vero cuore del Requiem: questo assolo del soprano, nella versione originale  destinato ad una voce bianca, nella purezza della sua linea, nella raffinata  tornitura modale dell’accompagnamento, incarna alla perfezione la concezione di  Fauré, fatta di tenerezza e di indicibile, quasi sovrumana dolcezza.