Antonio Pappano: Dvořak Concerto in si minore op. 104, Han -Na Chang violoncello
Orchestra dell ’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Antonio Pappano
 Direttore
Han  -Na Chang
 Violoncello
Antonín  Dvořák
 (Nelahozeves  1841 - Praga 1904)
 Concerto in si minore
 per violoncello e orchestra  op. 104
 Allegro
 Adagio ma non troppo
 Allegro  moderato
Il Concerto per violoncello e orchestra di Dvořák
 Tratto dal libretto di sala dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
 
 
 Data di composizione 
 1894 - 1895 
 Prima esecuzione 
 Londra, 19 marzo 1896
 Direttore   
 Antonín Dvořák  
 Violoncello 
 Leo Stern 
 Organico 
 Violoncello solista, 
 Ottavino, 2 Flauti, 
 2 Oboi, 2 Clarinetti, 
 2 Fagotti, 3 Corni, 2 Trombe, 
 3 Tromboni, Basso Tuba, 
 Timpani, Triangolo, Archi      
 
 Come Smetana, Antonín Dvořák  è nato in Boemia,   “la nazione più profondamente musicale d’Europa”.   Il padre, macellaio e gestore della locanda del   villaggio, cantava e suonava il violino nelle feste per   arrotondare i magri guadagni e il suo repertorio era   la musica popolare della regione: quelle melodie e   quei ritmi furono la colonna sonora dell’infanzia di   Antonín e gli rimasero sempre nel cuore. Da ragazzo   imparò con facilità sorprendente il violino, la viola,   il pianoforte e l’organo, ma secondo il padre il suo   futuro era al bancone della macelleria di famiglia. Solamente   all’età di sedici anni, superate le resistenze   paterne, poté andare a Praga per avere una formazione   più regolare; in due anni si diplomò in organo,   quindi studiò composizione da autodidatta, leggendo   tutte le partiture che gli amici gli prestavano, non   avendo i mezzi per comprarsele. Nel frattempo si   guadagnava il necessario per vivere suonando la viola   in orchestra, spesso sotto la direzione di Smetana,   e anche questa fu un’ottima scuola.
 
 Già in quegli anni cominciò a comporre – pezzi brevi   e anche due Sinfonie – ma tutte queste composizioni   per il momento rimasero nel cassetto, poi alcune furono   distrutte dall’autore e altre pubblicate postume.   Ottenne la prima esecuzione pubblica quando aveva   superato i trent’anni, grazie a Smetana, che nel 1872 diresse   l’Ouverture di Re e carbonaio, un’opera rifiutata dal Teatro Provvisorio   di Praga perché “troppo complicata”. Nel 1874 vinse una   borsa di studio statale per artisti giovani, poveri e di talento: faceva   parte della commissione aggiudicatrice Johannes Brahms,   che prese il giovane compositore ceco sotto la sua protezione,   lo presentò a uno dei più importanti editori tedeschi, Simrock   di Berlino, e gli aprì le porte delle principali istituzioni musicali   europee. Brahms divenne il suo mentore e il suo modello.
 
 Come Brahms, Dvořák  coltivò assiduamente le forme classiche,   che allora i più stavano abbandonando perché accademiche e retrograde. In alcuni casi i riscontri sono puntuali e   sorprendenti: nel 1860 Brahms pubblicò due Serenate – un genere   allora uscito pressoché totalmente dall’uso – e alcuni anni   dopo anche Dvořák  compose due Serenate; nel 1869 Brahms   pubblicò le Danze ungheresi per pianoforte a quattro mani e   Dvořák  rispose con le Danze slave. In alcuni periodi guardò anche   all’antitesi di Brahms, a Wagner, di cui da giovane aveva   subito l’irresistibile fascino in occasione di un concerto da lui   diretto a Praga. Ma sempre conservò la sua caratteristica inconfondibile,   cioè la fedeltà al retroterra contadino, che si manifestava   nell’atteggiamento non intellettuale né costruito ma   diretto, sincero e onesto e soprattutto nelle melodie e nei ritmi   tradizionali cechi riversati a piene mani nelle sue composizioni,   sia quelle più caratterizzate in senso popolare sia quelle più accademiche,   come le Sinfonie e i Quartetti. Come è stato detto,   nella sua musica si realizza la paradossale simbiosi dello spirito   del villaggio boemo con le grandi architetture classiche.   Il suo approccio al folclore e alle tradizioni del suo paese ha motivazioni   meno marcatamente patriottiche di quelle di Smetana.
 
 Si può dire che il suo è un amore per la freschezza, la semplicità   e la naturalezza di tutta la musica popolare, infatti nelle sue opere   s’incontrano anche citazioni della musica slovacca, polacca,   lituana, russa, serba, zigana, greca, scozzese e perfino americana.   Due delle sue composizioni più note, la Sinfonia “Dal Nuovo   Mondo” e il Quartetto “Americano”, utilizzano infatti numerosi   spunti della musica dei pellerossa e degli afroamericani, da lui   conosciuta durante i tre anni (1892-1895) in cui fu chiamato a   dirigere il National Conservatory of Music di New York.
 
 A quello stesso periodo risale anche un altro dei capolavori di   Dvořák , il magnifico Concerto in si minore per violoncello e orchestra   op. 104, che non contiene riferimenti diretti alla musica americana   ma che forse non sarebbe mai stato scritto se Dvořák  non   fosse andato a New York. Lì, tra i colleghi del Conservatorio, conobbe   Victor Herbert – irlandese di nascita e tedesco di formazione,   compositore, direttore d’orchestra e violoncellista – e nel   1894 assistette alla première del suo Secondo Concerto per violoncello,   rimanendone così impressionato da decidere di scriverne   anch’egli uno, superando la convinzione che questo strumento   producesse “un suono nasale nelle note acute e un brontolio in   quelle basse”, che l’aveva convinto a mettere da parte un Concerto   per violoncello iniziato all’età di ventiquattro anni.
 
 Dvořák  compose rapidamente questo Concerto tra il dicembre   1894 e il febbraio 1895 e lo dedicò al suo amico violoncellista   Hanus Wihan. I due discussero insieme la parte solistica   e Wihan gli diede vari suggerimenti, tra cui l’aggiunta   di una cadenza subito prima della conclusione del Concerto.   Ma Dvořák  non fu assolutamente d’accordo e scrisse al suo   editore: “Ho avuto delle divergenze d’opinione col mio amico   Wihan su numerosi punti. Non mi piacciono alcuni dei passaggi   da lui riscritti e devo insistere sul fatto che il mio lavoro   deve essere stampato così come l’ho scritto [...]. Io vi darò   l’opera solamente se voi promettete di non permettere a nessuno   – Wihan non escluso – di apportarvi dei cambiamenti   senza che io ne sia informato e dia il mio consenso [...]. Non   c’è cadenza nell’ultimo movimento. Ho detto chiaramente a   Wihan, quando me l’ha mostrata, che era impossibile inserire   qualcosa del genere. Il Finale chiude con un graduale diminuendo,   come un lamento, con reminiscenze del primo e del   secondo movimento; il solista finisce in pianissimo, poi cresce   nuovamente e le ultime battute sono affidate all’orchestra e   l’insieme conclude in modo tempestoso. Questa è la mia idea   e non bisogna allontanarsene”.
 
 Forse per questa ragione il Concerto, pur restando dedicato a   Wihan, fu eseguito da Leo Stern alla prima, avvenuta a Londra il   19 marzo 1896, con Dvořák  sul podio. Ma forse ciò dipese solo   da un precedente impegno di Wihan, che eseguì poi il Concerto   in numerose città europee. D’altronde il Concerto sembra scritto   proprio su misura delle qualità di Wihan: “perfezione tecnica,   raffinato gusto musicale, brio e verve” e soprattutto “suono   potente e robusto”, perché una delle maggiori difficoltà per il   solista è non farsi soverchiare dall’orchestra, la più ampia ed   energica mai usata da Dvořák  in un Concerto.
 
 Il carattere maestoso del Concerto è già stabilito dall’elaborata   introduzione orchestrale dell’Allegro. Emergono immediatamente   i clarinetti, che presentano l’imponente primo tema, subito   ripreso e ampliato dall’intera orchestra. I corni espongono il secondo   tema, lirico ed espressivo, quindi l’orchestra introduce un   motivo dall’andamento danzante, che porta all’entrata in scena   del solista con un’appassionata versione del tema principale,   risoluto e quasi improvvisando. Il successivo sviluppo di questo   materiale tematico è grandioso ed eroico, evitando però toni   troppo altisonanti e retorici e anzi aprendo parentesi di intimo   e squisito lirismo, come il delicato dialogo molto espressivo tra   il solista, il flauto, il clarinetto e l’oboe soli e i violoncelli in pizzicato.
 
 È anche ammirevole la fantasiosa abilità con cui Dvořák    fa riapparire al violoncello il tema iniziale, che però ora assume   quel tono lirico precedentemente associato al secondo tema ed   è accompagnato da un’amabile melodia del flauto; similmente   l’orchestra più avanti riprende il secondo tema, attribuendogli il   carattere baldanzoso che era del primo tema. Al solista è richiesta   un’alta dose di virtuosismo ma non gli è concessa l’abituale   cadenza e il movimento si sviluppa continuativamente   in stile sinfonico, fino alla conclusione, quando il   tema principale è ripreso trionfalmente dalla risonante   fanfara degli ottoni e dai timpani.
 
 Il tema dolce e fervidamente espressivo dell’Adagio   ma non troppo (in sol maggiore) è presentato   dapprima dagli strumenti a fiato, per poi passare al   violoncello in dialogo con i clarinetti. Questo tono   tranquillo è spezzato da un intervento improvviso   e violento dell’orchestra, in sol minore, quindi appare   il secondo tema, che Dvořák  riprese dalla sua   Romanza da camera Lasciami andare da solo con i   miei sogni (op. 82 n. 1), molto amata dalla cognata   Josephina, allora seriamente ammalata. Quando   morì, nel maggio del 1895, il compositore scrisse   una nuova conclusione per il terzo movimento, in   cui questo tema riappare come un ultimo addio, e   ciò spiega la sua contrarietà al tentativo di Wihan   d’introdurre proprio lì una cadenza virtuosistica.   Secondo alcuni il carattere fondamentalmente gioioso ed   energico dell’Allegro moderato manifesterebbe la felicità di   Dvořák  per il prossimo ritorno in patria alla conclusione del   contratto col Conservatorio americano. Il primo tema, semplice   ma trascinante, è dapprima esposto piano dai corni   sull’andamento di marcia degli archi gravi, ma presto passa   all’intera orchestra e poi al solista. Da questo punto in avanti   il movimento procede come un’affascinante successione   di nuovi temi, ora energici, ora lirici, con seducenti dialoghi   quasi cameristici tra il solista e gli strumenti dell’orchestra,   intervallati dal ritorno del primo tema, come in un Rondò.
 
 Quando tutto sembra procedere senza ostacoli verso un finale   trionfale, Dvořák  introduce con un tocco magistrale una   reminiscenza del movimento lento, cantato dal solista come   un dolente addio, discendendo gradualmente verso il pianissimo,   ma le ultime battute sono un fulmineo e gioioso happy   end dell’orchestra.